C’ERA UNA VOLTA IL TENNIS

Lettera a un vecchio amico d’infanzia

Caro Angelo,

c’era una volta il “Padria Tennis Club“. Più che un’associazione vera e propria, con regolari iscritti, come la concepiremmo oggi, un’idea scaturita dalla fantasia, dai sogni del suo artefice spirituale: Fausto Delogu (il secondo da destra), il medico del paese, mio padre (alla sua destra ci sono io).

Due furono le edizioni del torneo alla fine degli anni 70: “Padria Tennis Championship” e, l’anno seguente, “Padria Classic Tennis”.

La prima fu vinta dal mitico e talentuosissimo beniamino locale, Franco Piga (il primo da sn), cui sicuramente va attribuita la paternità dell’idea, i nomi di battesimo; la seconda, non sono sicuro, ma, mi pare, anche. Sempre in finale contro Roberto Chelo (al centro nella foto con la custodia Fisher, mentre il primo da dx é suo fratello Ernesto) : atleticamente solido, pragmatico come lo era a calcio, ma non altrettanto spettacolare e fantasioso: il giusto avversario quindi!
La regale Maxima Torneo De Luxe di Franco (con le corde “super-tirate” per l’occasione, giusto per il tempo della sfida epocale, prima che le fibre di legno si incurvassero inesorabilmente, ma solo dopo essere stata “rifilata”, in senso cameratesco, a “Seb”; questo era uno tra i vari affettuosi epiteti, sempre spiritosamente incassati da “Bastianino”, il secondo da sn in foto) e la “gazzellosa” Slazenger di Roberto.
Potrebbe essere che però, nel secondo torneo, epoca cui risale la foto di copertina, Franco giocò con una Wilson Jack Kramer (immancabilmente venduta a “Seb”) mentre Roberto con una Fisher di legno.

Due gironi all’italiana di quattro o cinque tennisti ciascuno: perché reperire i preziosissimi candidati all’epoca era e fu impresa difficilissima: si giocava in quattro gatti, e pure visti con una certa diffidenza, quasi ostilità, in un ambiente dove sport=calcio era l’unica equazione accetta, concepita e comprensibile. E Roberto fu uno dei primi “disertori” (una sorta di bigamia tra calcio e tennis): ma se lo poteva permettere per personalità e intelligenza. Così ci fu chi poi ne seguì l’esempio.

Il tennis, nei paesini della Sardegna era, di fatto, un illustre e sconosciuto intruso mentale, prima ancora che un’occasione di incontro giocata su un modesto quadrato d’asfalto all’ingresso di un paese da pochi privilegiati, da cui mantenere possibilmente garbata e diffidente distanza: anche quando questi chierici del tennis andavano vagando disperatamente alla ricerca di compagni con cui giocare, ovvero stringere amicizia, incentivandoli con la promessa che avrebbero financo provveduto alle palline!

In questo contesto soltanto benvenuti, altro che!, sarebbero stati i forestieri, i “non-residenti” cui è invece preclusa attualmente la partecipazione al nuovo torneo: scelta, come mi hai scritto, “dettata dalla necessità di evitare figuracce”. Desolante, ma credo che tu colga nel segno.

Benvenuto all’epoca era chiunque amasse il tennis e volesse soprattutto giocare, sfidarsi, confrontarsi. Perbacco! E infatti, così avvenne nei primi anni 80 quando la cerchia dei tennisti si allargò, e si arricchì degli appassionati del vicino “paese rivale”: Pozzomaggiore. Perché, è doveroso ricordarlo, il miglior talento tennistico espresso dalla zona è stato Piero Mannu: un vero indiscusso e incontrastato fuoriclasse per intelligenza tattica e simpatia. Non solo il suo precisissimo rovescio a due mani e l’assetto in campo erano inarrivabili per tutti noi: Piero, anche lui rigorosamente formatosi all’unica scuola disponibile, quella della TV, giocava semplicemente su un altro pianeta (e non ho dubbi, anche se Piero ricamava un po’ con la sua fervida fantasia, che si sia davvero fatto rispettare tra i tennisti pure a Pisa, dove poi andò a studiare medicina). Con buona pace di noi padriesi. E dei “macommeresi”. I quali riuscirono a far vincere in finale contro Piero il loro beniamino, pur bravo, Francesco Vinci, solo ricorrendo a un arbitraggio assai poco ortodosso. Ma giocavano “protetti” in casa. Fu una brutta esperienza di gioco. E di vita. Sempre attuale.

Tutto questo accadeva nel passaggio tra l’era tennistica in cui in Italia a Nicola Pietrangeli era succeduto Adriano Panatta, col quale, unica nella sua storia, la nostra nazionale di Tennis vinse la Coppa Davis nel 1976, e l’epoca seguente: di Björn Borg, John Mc Enroe e dell’irriducibile Jimbo (Jimmy Connors); solo per menzionarne alcuni.

Ma sono andato troppo avanti. Meglio riavvolgere un po’ il filo per ritornare alla storia che avevo iniziato a narrare e che riguarda invece il decennio precedente: buona parte degli anni 70.

Non tutti a Padria ricorderanno l’imbattibile Stefanoni. Era uno dei tecnici, dei geometri, che lavorarono alla costruzione della diga di Monteleone Roccadoria. Si era stabilito per l’occasione a Bosa. Quindi aveva notato il campo di Padria nel tragitto tra casa e lavoro. Era lui il più forte. Il Golia da battere. A Franco (allora studente in ingegneria a Cagliari, che portava in paese da Monte Urpinu le nozioni apprese da spettatore squattrinato e spensierato alle lezioni di tennis dei maestri della capitale, Palmieri e Bassotto… e così ancora oggi ci piace sempre pensarlo) lo fece uscire letteralmente fuori di testa e a niente valse la racchetta “magica” (tale era la convinzione del padrone) che Franco Mura (un padriese, bancario se non sbaglio, fumatore di pipa come altri emigrati di distinzione del paese, che aveva trovato fortuna a Brescia) mi mandò a prendere a casa sua durante quella amichevole disfatta agostana. Franco (Piga) quel giorno fu “triturato” dall’amico maggiore (aveva almeno 10 anni buoni più di lui ma ci si dava del tu) “Luigi” (Stefanoni). Mi ricordo ancora l’espressione di impotenza del mio idolo che ritenevo invincibile. Quindi la mia corsa in bici a prendere quella racchetta miracolosa era stata tanto disperata quanto inutile: capii che la differenza in campo non dipende solo dagli strumenti e dal cuore ma, soprattutto dalla testa.
Come nella vita.

Il “Forte Piga” (così si autodefiniva ironicamente Franco) fu sconfitto di fronte al suo pubblico che contava, tra i vari fan, anche le sue cugine “gnocche” (mi si passi il termine) venute in vacanza da Roma, e che, quasi per certo, comunque lo consolarono.
Ma ci fu un’altra occasione in cui la medesima “Caporetto” toccò al Golia Stefanoni. Quella sì fu storica. E perse contro mio padre Fausto che era sicuramente sfavorito. L’espressione di soddisfazione contenuta, mai esultante, quasi sorniona, e per questo ancora più ironica e graffiante, di mio padre quel giorno, la ricordo bene. E la portata del momento, devo dire, io stesso l’ho compresa solo molto più tardi: come si dice, “da grande”.

Valse ogni “umiliazione” tennistica precedente e successiva.
Davide aveva tirato giù Golia dal piedistallo e, come si sa, in questi casi, quando Golia ritorna al suo posto, non è mai più come prima.

Sandro queste cose non le può conoscere perché ero bambino io e lui più di me.

Quello che io credo ha fatto mio padre per Padria, anche dal punto di vista sportivo, lui (Sandro) lo sottolinea molto bene. Sono convinto però, al contrario del sindaco (“non fraintendetemi, però il calcio prima di tutto, naturalmente”; no, no, diamine: ti sei spiegato benissimo!), che non ci sia mai stato calcio che tenesse al confronto. Il calcio era dietro anni luce rispetto a quello spirito di aggregazione che l’intuizione visionaria di mio padre, trasmessa attraverso l’apparentemente bizzarra “cattedrale” del campo da tennis in un paesino come Padria (quando, ti ricordo, per vedere un campo da tennis ce n’era uno a Bosa dalle suore, forse uno mezzo abbandonato a Macomer, oppure saresti dovuto andare sino a Sassari), aveva fatto germogliare.

Con mio padre, avrò avuto 5 o 6 anni, per prendere le misure ci finimmo (insieme a tutta la famiglia) a San Leonardo di Siete Fuentes (nei pressi di Macomer) e io stesso lo aiutai col decametro. Questo determinò l’apparente difetto (la “particolarità”) del ridotto spazio a fondo campo! Con le diavolerie al carbonio adesso non ci si potrebbe più giocare. Ma servì a far prediligere il gioco al volo. Con l’avvento di Piero (Mannu) ci dovemmo rassegnare ai suoi precisissimi passanti da fondo campo: imperava il modello Borg! Anche le racchette di legno, di lì a poco, furono rimpiazzate da quelle in fibra. Borg che si era ritirato a 26 anni nel 1983 provò a rientrare utilizzando la sua “mitica” Donnay (una clava incordata con cui, diciamocelo francamente, ci potevano giocare, e persino vincere, solo lui e Piero!) ma il tracollo fu totale e definitivo. Era stato trionfatore indiscusso praticamente “sino al giorno prima” ma parve che fosse ritornato dalla preistoria.

Lo stile tennistico di Franco (Piga) ancora oggi non lo ritrovi nemmeno in categorie superiori. Anche perché ormai prevale la potenza sulla leggerezza dei colpi di fioretto, e la parte “coreutica” (mi riferisco a quel che avviene nella coreografia di una danza) si è persa per sempre. Restano davvero solo nostalgici ricordi. L’eleganza della sua volée, il tocco felpato della sua demi-volée, il rovescio a una mano, praticamente perfetto (ci si sta ritornando finalmente, non fosse stato per Federer, o per i miei attuali concittadini che, in Italia, ne sono cultori e custodi: i livornesi; qualcuno ricorderà forse Volandri), e il “mulinare” fluido del suo servizio d’altri tempi, sono incisi nella mia memoria e rendono irrilevante il pur modesto, è vero, spessore agonistico di un atleta che era prima di tutto un artista.
Artista come mio padre. Che è stato soprattutto un filantropo. Ecco perché il tennis, quel tennis che all’epoca era un illustre sconosciuto, non é paragonabile né al calcio di allora, come espresso dal sindaco di Padria, tantomeno a quello che poi entrambi questi sport sono divenuti, purtroppo, negli anni.
Il tennis fu un pretesto. Fu Epica e, soprattutto Poesia. Come aver portato la corrente elettrica dove non ce n’era mai stata.
Ma la differenza, ne sono convinto, fu il gruppo che mio padre Fausto riuscì a creare.
Era inclusivo e non esclusivo: anche se richiedeva la condivisione di uno spirito, del suo spirito, della sua ironia nel guardare verso la vita e il prossimo, che prima erano stati alquanto sconosciuti alla più parte dei padriesi e di cui, duole constatarlo, dopo di lui non mi pare sia rimasta traccia se non nel suo esempio. Non è poco.
È stato un Maestro e confido che numerosi, tra coloro che avendo avuto il privilegio di conoscerlo o accompagnarlo, anche brevemente, siano quelli riusciti a carpire, forse mantenere, magari riscoprire autenticamente, almeno un poco dei suoi insegnamenti senza perdersi troppo per strada.

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